Aneddoti

Il generale Bianchi, stabilito il quartier generale a Tolentino, andò ad abitare, il palazzo del conte Bezzi; e perché uomo che mal pativa il freddo, volle adagiarsi al primo piano nella prima camera che s’incontra a sinistra, scelta da lui perché vi ebbe trovato un eccellente caminetto, ove dinanzi ad un gran fuoco attendeva ai disegni d’una decisiva battaglia. Questo generale ebbe occasione di esperimentare l’avvedutezza e sorridere ai tratti di spirito della contessa Bezzi. Appena occupato il palazzo dai tedeschi, malgrado la presenza del generale supremo, la cucina, ricca di svariato utensile, venne senz’altro svaligiata: la signora, appena seppe di questo saccheggio improvviso, si presenta al generale e gli dice:
– Ebbene, Generale, questa mattina Ella starà digiuna.
– Come! rispose Bianchi.
– Non si ha più come allestirle il pranzo; tutto è sparito.
Il generale dava tosto ordine che ogni cosa si consegnasse, e, corsi pochi istanti, tutto era al suo posto.


Gioacchino Murat, appena giunto a Macerata, spedì a Tolentino un viglietto al Cav. Taddeo Fidi, suo amico fedele, e allora il più facoltoso gentiluomo di questa città. Il re lo pregava a fargli conoscere i movimenti degli austriaci, e specialmente dove fosse il corpo del generale Neipperg, e certo della vittoria lo avvertiva che il dì appresso sarebbe venuto a pranzo da lui a Tolentino. Fu chiamato un contadino per portar quel viglietto: era Sante Merlini, soprannominato Basilico, di Tolentino; il quale si ebbe trenta piastre per la missione pericolosa, che assumeva, con promessa di trenta altre se portava la risposta. Il Merlini fu a Tolentino in mezzo a’tedeschi; s’ebbe dal Fidi una risposta nella quale avvisava il re che il generale Neipperg moveva con un corpo ausiliario e molto poderoso da Cingoli. Il contadino, che all’andare ed al ritornare aveva cuciti i viglietti in una delle sue scarpe, avviandosi verso Macerata, s’imbatté in un drappello di cavalleria ungherese sul Chienti: preso da spavento non fece altro che levarsi le scarpe, e gittarle nel fiume. Così Murat non poté avere le indicazioni desiderate; il che gli fu fatale. Il contadino dipoi ripensò al fallo commesso, e sentì il rimorso di sua codardia, tanto più perché egli rimase al Chienti, spettatore del disastroso combattimento. Gioacchino non vedendo risposta al viglietto diretto al Fidi, spedì un altro esploratore, e, secondo il Colletta la notte dal due al tre una spia venuta a Tolentino rapportò, che altre truppe tedesche erano pervenute da Camerino; e che perciò le forze riunite in quella città ascendevano a quindicimila uomini. Questi rapporti sebbene verosimili non furon creduti veri: il re suppose che il nemico avesse soli ottomila uomini, e giudicò che le divisioni impegnate in quel giorno bastassero pel dì seguente.


Colla sconfitta di Murat si spense, quasi in sul nascere, l’idea dell’indipendenza italiana. Laonde fu composto uno stornello, che tuttora va sulle bocche del popolo, e che è come la sintesi del fatale e guerresco avvenimento. Fu detto e ripetuto:
Tra Macerata e Tolentino
é finito il re Gioacchino.
Tra il Chienti e il Potenza
Finì l’indipendenza.


 

 

Il Rascioni, in una nota del suo Diario, sotto il dì 10 maggio, narra che porzione dell’ala sinistra tedesca, comandata dal generale Ekhardt, restò per più di due ore senza munizione, per il che si credeva perduta. Eppure Murat non si mosse dalle sue posizioni, sospettando ciò fosse uno stratagemma, un agguato. Di più il centro austriaco avea già perduta la Rancia, e si era riunito al Rotondo, e già il Bianchi avea ordinato la ritirata di tutto l’esercito verso Serravalle: le salmerie già difilavano verso Belforte, quando all’improvviso le sorti della battaglia si cambiarono in favore degli austriaci.

Povera Tolentino, esclama Rascioni, se cadeva in mano dei napoletani! Secondo le uniformi relazioni dei prigionieri le erano stati decretati da Murat il sacco di sei ore e danni molto maggiori. Le quali sinistre voci gonfiate ad arte dagli austriaci, misero un grande spavento nei cittadini, specialmente facoltosi, che si affrettarono porre al sicuro e nascondere le preziose suppellettili e gli oggetti di valore.

I napoletani, che, come si è accennato, si ripiegarono in quadrati nelle colline di Cantagallo posero in sulle prime file i giovani costritti per impedire che prendessero la fuga: la cavalleria ungherese attaccò; le giovani leve che la prima volta sostenevano l’urto nemico, si sgominarono, retrocessero, non osarono rispondere al fuoco, causando negli altri confusione e spavento.


 

In uno di quei giorni, in cui ferveva il conflitto, un reggimento tedesco, facendo fuoco, non arrivava ad uccidere uno dei nemici: fu chiarito che un colonnello, un italiano, a servizio dell’Austria, avea reso inservibili le cariche: per lo che venne subitamente passato per le armi e le mortali spoglie di questo italiano dalle erculee forme, fedele alla patria, infedele all’Austria, sepolte presso la chiesa della Cisterna, per gran tempo furono obbietto di commiserazione degli abitanti, che assistettero all’esecuzione. In casa dei conti Silverj, presso i quali il colonnello ebbe alloggio, è tuttora viva la tradizione di questo fatto, e della circostanza che un servo spedito al campo per portare il pranzo al medesimo, fu costretto tornarsene colle vivande intatte, perché, strada facendo, fu informato della fucilazione avvenuta.


 

Dopo che la famiglia Bezzi ebbe dal generale Bianchi in dono i due disegni, di cui superiormente si è parlato, venne vaghezza al Municipio di Tolentino procurarsi una copia dei quello che rappresenta al Battaglia: lo si fece eseguire ad olio e nelle proporzioni identiche a quelle del quadro ancora esistente in cui è raffigurato il Trattato di pace di Tolentino: lo si collocò nella sala principale del palazzo di città, ove rimase fino al 1848. In quell’anno alcuni giovinotti caldi di amor patrio e spinti dall’odio contro lo straniero, volendo, secondo il loro modo di vedere, cancellare l’onta della sconfitta subita nel 1815 dagl’italiani, per opera degli austriaci, contro dei quali si era di nuovo in guerra, disdegnosi che ne rimanesse in patria una visibile memoria, corsero al palazzo comunale, strapparono il quadro dalla parete, lo gittarono dalla finestra e, fattolo a brani, lo bruciarono nel centro della piazza maggiore, emettendo grida di evviva all’Italia e abbasso all’Austria. Quel fatto fu a mente fredda giudicato severamente e disapprovato, ma, considerando lo stato degli animi e delle circostanze che lo accompagnarono, si spiega di leggieri e si scusa.


 

Questa memorabile battaglia lasciò profonde tracce tra i popoli della Marca, fra i quali ne è sempre viva la tradizione. Divenne soggetto di un poema in ottava rima composto dal Sig. Iganzio Belzoppi, Professore di belle lettere nel Ginnasio di Tolentino, il cui manoscritto conservasi nella Biblioteca di questa città: fu commemorata con iscrizione lapidaria, che venne distrutta nell’anno 1848, quando fu fatto un atuo-da-fè del quadro, del quale superiormente si è tenuto discorso.


 


Una signora defunta pochi anni or sono, spesso narrava in famiglia, che trovatosi a Montemilone, ora Pollenza, quando ebbe luogo la battaglia: ella che aveva allora l’età di 11 anni, dichiarava aver veduto nottetempo innalzarsi dei fuochi nella campagna: erano pire formate di cadaveri tedeschi, la cui vista metteva orrore e ribrezzo: rammentava parimenti avere osservato i tedeschi squartare gli uccisi cavalli, rosolarne le carni al fuoco e mangiarle sanguinolenti insieme al sapone.


Anche molti napolitani vennero parte arsi, parte gittati nella vasta cisterna del castello della Rancia, che ne fu ripiena fino all’orlo, sebbene profondissima. Questo castello, fatto costruire da Rodolfo II Varano, ed ora proprietà del principe Sigismondo Bandini, conserva nel fondo della torre molti cerchi di ferro infissi al muro, ai quali nel medio evo erano attaccati i miseri prigionieri presso l’orifizio di un trabocchetto ora chiuso, dove venivano precipitati, quando si era stanchi di torturarli.

 


 3 Aprile 1815.
Proveniente dalla Prefettura di Macerata venne alla Municipalità un pacco con entro otto stampe di allarmante proclama, firmato da Gioacchino a Rimini il dì 31 Marzo, nel quale si da risalto alla grand’opera, a cui si è accinto, di basare l’Indipendenza Italiana…..Entro questo pacco vi era una piccola cartina, dove leggevasi: Si dispensino ai veri amici senza farsi pubblicare dal Tubatore.In questo medesimo corso dalla istessa Prefettura si scrive al Vice-Prefetto: E’ noto al Governo, che il Papa abbia scritto a cotesto Vescovo, imponendogli di far parsuadere colla mezzanità dei Parrochi, ai Frati ed alle Monache di non prendere pensioni, ed inibisce ai detti Parrochi di non leggere gli ordini dall’altare ai popoli.


17 Marzo 1815.
Vi è l’ordine del Prefetto di Macerata che si presentino al Re le chiavi della città, e del Curato alla Porta della Chiesa s’incensi.
Finalmente oggi, 19 Marzo, giorno della Domenica delle Palme, circa le ore 17 e mezzo giunse Gioacchino Murat in Loreto. Smontò avanti la Basilica, ove si ritrovò il Vescovo, che abbandonò l’assistenza della Messa cantata per andare incontro a questo scomunicato, e a capo scoperto gli aprì lo sportello della carrozza, lo servì di braccio, e lo pose sotto il Baldacchino. Vi erano ancora diversi del Capitolo e Clero, rimanendo gli altri ad ufficiare il Coro.


Il feld-maresciallo Bianchi a Tolentino ebbe preso alloggio nel palazzo del conte Giovanni Bezzi.
Una mattina scomparve uno de’ più grossi lumi d’argento e, nonostante le più accurate ricerche fatte in casa dalla signora, non fu possibile rinvenirlo.
Mancava solo d’indagar nella stanza occupata dal generale. La signora arditamente si avanza per entrarvi, ma le sentinelle glielo impediscono. Avvertito il movimento e saputo che era la padrona, il generale ordina che si lasci entrare, ed ella gli dice: che in tutta la casa non era riuscita a trovare uno dei suoi lumi d’argento; le permettesse di farne ricerca entro quella stanza. Il generale, ignaro senza dubbio del furto, lascia che la signora cerchi liberamente, e sotto gli occhi di lui, essa trovò nascosto dietro il letto l’involato lume. Se ebbero tanta sfacciataggine di svaligiare anche la casa dove era ospitato il generale in capo, quanto più e peggio non avranno ladroneggiato fuori? Ma l’andazzo era di dare addosso ai Napoletani soltanto, perché la plebaglia favoriva i Tedeschi.


Tratti da: “La Battaglia di Tolentino – Documento VII” di G. Mestica, in Atti e Memorie della R. Deputazione marchigiana di Storia patria, vol. VI, 1903;”La Battaglia di Tolentino nell’anno 1815 – Memorie, Documenti, Aneddoti” di G. Benadduci, Tolentino, Tip. Filelfo 1890 e 1915.